Senza documenti, è come se mi rubassero la vita.
Quando ho visto gli elicotteri della Guardia Costiera italiana, ho ringraziato Dio e capito che il viaggio sul barcone era finito. Sono rimasto a Lampedusa solo un paio di giorni, poi mi hanno trasferito vicino a Taranto: è lì che, dopo neppure due settimane, ho visto un elenco con il mio nome sotto alla scritta “Montecampione”.
Si chiama così un paesino sulle alpi bresciane, dove io (con altri cento “clandestini”) sono stato trasferito. Non abitavamo in paese, bensì in un vecchio impianto sciistico, a sei chilometri (di alta montagna!) da qualsiasi altro luogo abitato. I primi giorni mi sono sembrati un paradiso – soprattutto rispetto al viaggio in barca – ma poi ho capito di essere in un hotel-prigione: avevamo da mangiare e da dormire, ma non potevamo fare nulla, né vedere nessuno, né interagire con niente che non fosse l'albergo stesso e i suoi dipendenti. Inoltre io non conoscevo la lingua italiana, quindi potevo comunicare solo con alcuni “ospiti” come me.
Era un vero incubo non poter far niente per tutto il tempo: potevamo solo pensare, per l’intera durata della giornata, ma molti di noi provenivano da realtà che avrebbero preferito dimenticare.
Poi alcuni volontari hanno iniziato a venirci a trovare, spiegandoci anche la faccenda dei documenti. Io sono nato in Nigeria, ma vivevo in Libia da quindici anni, dove lavoravo come stilista in una piccola cittadina. Un giorno un mio amico mi ha detto che dovevo fuggire, perché Gheddafi arruolava forzatamente le persone di colore – come me – per combattere la Nato. Io non volevo imbracciare le armi, allora mi sono trasferito a Tripoli, vicino all'ambasciata nigeriana, dove pensavo che sarei stato al sicuro. Invece non è servito: ci hanno radunati, ci hanno tolto tutto, compreso i cellulari (“siete arrivati in Libia senza niente, andrete via allo stesso modo”), e ci hanno imbarcati. Per quello che mi riguarda, non è stata una scelta: semplicemente non potevo fare altro.
Dopo quattro mesi trascorsi a Montecampione, non avevo imparato neppure una parola di italiano. Se a quel punto mi avessero lasciato libero, magari senza il permesso di soggiorno, che cosa avrei potuto fare? Probabilmente mi sarei fidato del primo nigeriano che avrei incontrato e che mi avesse offerto un lavoro, e forse oggi sarei un delinquente. Invece un gruppo di volontari dell'associazione K-Pax ha deciso di proporre alla Prefettura delle soluzioni alternative al riposo forzato di Montecampione, appoggiandosi a cooperative, volontari e associazioni. Un lavoro lungo e difficile, ma la Prefettura almeno non si è opposta e l’ha reso possibile.
Ora vivo a Cerveno: sono ancora sulle alpi, però adesso sono inserito in questa piccola comunità montana, dove non sono visto come un “clandestino”, ma come un essere umano, con una storia e un nome. Il mio è Ibrahim.
E ho riacquistato la mia dignità: da tre mesi seguo un corso di italiano e posso lavorare come sarto in una bottega. Se lo stato italiano mi darà i documenti in regola, potrò fare qualcosa di buono per l'Italia; in Libia, nessuno mi doveva sfamare: lavoravo e partecipavo all'economia della nazione, e qui posso fare lo stesso. Anzi, non trovo giusto che gli italiani debbano pagarmi l’alloggio: io chiedo solo di poter avere dei documenti che mi permettano di guadagnarmi da vivere. Ma se mi negheranno il permesso di soggiorno, tutto questo non sarà possibile. E, se dovesse succedere, non so davvero che cosa farò.
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