C’era una volta un pupazzino, cucito con una stoffa un po’ lisa, che sembrava un piccolo spaventapasseri color castagna. Era vecchio, molto vecchio, tanto che ormai neppure lui serbava memoria del suo creatore, anche se aveva il vago ricordo di una piccola vecchina, con le mani tremolanti e la pelle rugosa.
Il pupazzo non aveva un nome, era un po’ sporco, di foggia antiquata e ormai fuori moda: nessuno giocava più con lui. Molti anni prima aveva perso uno dei due bottoni che gli facevano da occhi, ma lui non se ne crucciava, anzi, ringraziava sempre la Grande Coperta di Feltro (la divinità che protegge i pupazzi di stoffa) che l’altro bottone era rimasto ben saldo sul suo viso, permettendogli di vedere cosa succedeva attorno a lui.
Un giorno il pupazzo Senza-Nome si ritrovò chissà come - forse era stato perso, forse gettato via, magari regalato a qualche bambino sbadato - insomma, si ritrovò davanti a una grande casa elegante, bianca come la neve e sfolgorante come il sole, che splendeva alto nel cielo. L’edificio aveva attorno un maestoso giardino e Senza-Nome vide un gatto pezzato che si stava pulendo una zampa, leccandosela tranquillamente, seduto sopra l’alto muro di cinta della casa. Proprio in quel momento il gatto sollevò lo sguardo e lo fissò, a lungo e intensamente. Poi il felino scese con un agile balzo e si avvicinò al pupazzo, lo annusò e lo prese tra i denti, delicatamente, come avrebbe fatto con un cucciolo appena nato.
“Dove mi porti?” chiese Senza-Nome.
“Miao” rispose il gatto, sbiascicando un poco la parola perché teneva ancora il pupazzo tra i denti.
“Va bene, aspetto” annuì Senza-Nome, ma senza troppa convinzione.
Il gatto trotterellò abbastanza a lungo, scegliendo piccoli vicoli bui ed evitando automobili e persone, fino a che giunse nel cuore della città: qui c’erano antichi palazzi una volta imponenti ma che, ormai, risentivano degli anni e delle intemperie, ed avevano i muri un po’ scrostati e i giardini troppo affollati di piante ed erbacce.
“Come ti chiami?” chiese ad un certo punto il pupazzo, che non parlava più con nessuno da un sacco di tempo.
“Miao-purr” rispose il micio, miagolando meglio che poteva.
“Cesira? Che nome strano…”
“Pfft-maao”
“Va bene, non c’è bisogno di arrabbiarsi” concluse Senza-Nome, ricordandosi solo in quel momento che i gatti sono sempre un po’ suscettibili.
Cesira passeggiò ancora qualche minuto lungo stradine secondarie e giardini semi-abbandonati, poi depose Senza-Nome sulla soglia di una vecchia casa di legno a graticcio intrecciato, un po’ decrepita ma ancora maestosa, con delle grandi finestre sagomate e un bel comignolo di mattoni. Poi la gatta si sedette sullo zerbino, accanto al pupazzo, e miagolò in direzione della porta:
“Miau!”
Non accadde nulla.
“Miauu!”
Niente.
“Miauuu!” e alzò la zampa destra, grattando lievemente l’uscio.
A quel punto all’interno della casa di sentirono dei passi e la porta si aprì piano, facendo uscire una lieve brezza di aria fresca e lasciando intravedere una stanza buia, ma con un bel fuoco acceso, nonostante fosse estate. Sulla soglia c’era una ragazzina magra, con i capelli scuri e arruffati: indossava delle scarpe da ginnastica un po’ rovinate e una lunga gonna colorata:
“Buongiorno Cesira” disse dolcemente la bambina, rivolta alla gatta “vieni, entra” ma l’animale non si mosse.
“Miiu” pigolò piano il felino, restando immobile.
“Non vuoi entrare? Oh, mi hai portato un regalino” esclamò sorpresa - ma non troppo - la ragazzina, notando solo in quel momento il pupazzo di stoffa; si chinò e lo raccolse, esaminandolo da vicino.
Senza-Nome, ora che vedeva bene il volto della bambina, si stupì grandemente nel constatare che assomigliava moltissimo alla vecchina che lo aveva tagliato e cucito, anche se non aveva le rughe e alcune linee del viso fossero un po’ diverse. Eppure la ragazza sembrava proprio quella vecchia, aveva persino lo stesso buon profumo di pane appena sfornato e antico legno di bosco.
“Me l’hai portato perché gli manca un occhietto, vero Cesira? E vuoi che io gli riattacchi un bottone” disse la ragazza rivolgendosi al gatto, ma senza smettere di scrutare il pupazzo “hai fatto bene, ma sai, non ce n’è bisogno. Tieni” e restituì Senza-Nome a Cesira, posandolo nuovamente accanto all'animale.
La gatta guardò la ragazzina senza capire:
“Miaou?” chiese restando seduta e muovendo solo lievemente la coda.
“Levagli anche l’altro bottone” spiegò con pazienza la bambina, accennando un lieve sorriso gentile.
“Miuuu…” protestò garbatamente il felino, un po’ perplesso, increspando appena i baffi.
“Non aver paura, Cesira: fidati di me”.
Senza-Nome intanto assisteva alla scena un po’ speranzoso, un po’ preoccupato, ma fondamentalmente stupito da tutto quello che stava accadendo, come se stesse vivendo una sorta di sogno.
La gatta allungò una zampa, estrasse gli artigli e si avvicinò al volto di Senza-Nome, che chiuse gli occhi – anzi, l’occhio - spaventato. Con un colpo secco dell’unghia, Cesira recise nettamente i fili che legavano il bottone, ma quando Senza-Nome riaprì l’occhio, si accorse di vederci lo stesso, nonostante il secondo ed ultimo bottone fosse accanto a lui sullo zerbino.
Gatta e pupazzo alzarono contemporaneamente i loro volti verso la bambina, in cerca di una spiegazione.
“I pupazzi non vedono con gli occhi” chiarì loro la ragazzina, sorridendo, prima di chiudere la porta “ma con il cuore”.
Senza-Nome annuì, abbozzando a sua volta un sorriso, poi Cesira lo riprese delicatamente in bocca e si allontanò con lui in un vicolo buio, in fondo a cui brillava intenso il sole estivo.
(per Francesco, gatto di nome Cesira, casa in centro, pupazzino - giugno 2011)
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