A pochi giorni di cammino da Norindea, sulla costa meridionale dell'Albaia, c'è il piccolo villaggio di Tinozza. Qui viveva un giovane inventore di nome Meràlio, molto noto in quella regione per le sue scoperte e creazioni innovative, come l’aratro di osso di spinoffo (un attrezzo molto più leggero di un suo pari di legno, pur essendo ugualmente resistente), l’estrattore automatico di spada (un fodero con una molla che espelle la lama, rendendo l’estrazione dell’arma assai più rapido e quindi letale in duello), la lanterna anti-vento, l’inchiostro sveltasciutto, il sandalo a pinna, il liquore di baccappero (un frutto autunnale altrimenti inutilizzabile) e molte altre invenzioni minori. Per non parlare delle sue famose opere d’arte, come il quadro della Battaglia di Prato Fiorito, la dama con la benda sull’occhio o la statua di Ruach Vittorioso.
Come si può facilmente intuire scorrendo rapidamente l’elenco delle sue opere più famose, Meralio era un uomo dai molti e variegati interessi: agricoltura, astronomia, letteratura, medicina, arte, ingegneria… non c’era branca in cui non si fosse cimentato con straordinarie innovazioni.
Ma, quando giunse la Luna dei Germogli dell’anno 462 del Terzo Evo, alla soglia dei trent’anni, Meralio cadde preda di un improvviso e profondo sconforto: smise di creare, di innovare, di ingegnarsi, persino di leggere o studiare. Trascorreva tutto il tempo su una scogliera erbosa, vicino a casa, a fissare il mare.
Ci vollero parecchi giorni ai suoi concittadini per capire il motivo del suo stato d’animo, ma alla fine la verità venne a galla: Meralio si era innamorato. A una fiera aveva conosciuto Nilémia, la figlia minore del Borgomastro di Norindea, ed il suo cuore aveva iniziato a battere solo per lei: pareva che il suo ardore per la scoperta e la creazione si fosse trasferito in blocco su questa ragazza dolce, dagli occhi azzurri come le onde e dai lunghi capelli color del miele.
Dopo due lune di malinconica inattività, Meralio si rinchiuse nel proprio studio e nessuno lo vide più: il cibo e le altre mercanzie gli venivano passate da una finestra, e la sola cosa che rendeva evidente la sua presenza era la lampada notturna perennemente accesa, e a volte il rumore di attrezzi al lavoro.
Quando finalmente uscì nuovamente da casa, erano trascorsi due anni. Gli abitanti del suo villaggio quasi non lo riconobbero, tanto aveva la barba lunga: solo gli occhi, ardenti e ossessionati, erano ancora quelli del grande e famoso inventore!
Comunque, dopo un buon bagno e un deciso taglio di peli facciali e capigliatura, l’aspetto di Meralio tornò ad essere quello di sempre. E tale sembrava anche la sua passione per le invenzioni, poiché fu subito evidente che il giovane aveva creato il proprio capolavoro: tutti infatti conoscevano il proverbio noriano che dice “a chi ami, dona ali per volare”, ma lui l’aveva preso in parola e aveva creato delle ali meccaniche che permettevano di spiccare il volo!
Così almeno lui stesso diceva.
Il tempo di raggiungere a cavallo Norindea, e tutto fu pronto per il volo inaugurale: era il tramonto, e Meralio si stagliava sulla scogliera cittadina come un falco, in attesa di lanciarsi nel vuoto. Aveva già indossato la strana imbracatura, a cui erano agganciate delle ali di osso di spinoffo (le stesse del noto aratro, ma di dimensioni più piccole), a cui a loro volta era fissata della tela impermeabile.
La folla trattenne il respiro, e solo alcuni gabbiani osarono mescolare i propri richiami al fragore lontano delle onde, rompendo il silenzio di morte che era sceso sul Faraglione del Sole.
Meralio fece un solo passo e scivolò verso il mare e gli scogli, che erano almeno sessanta passi sotto di lui. Scese rapido come un fuso mortale, e la folla già era pronta alla peggiore delle disgrazie, quando le ali raccolsero il vento e si gonfiarono, e l’uomo riprese quota come una rondine che gioca nel vento. Tutti i presenti restarono a bocca aperta e qualcuno lanciò un’esclamazione di divertito stupore: Meralio stava veramente volando e volteggiava come un uccello, nell’aria fresca e lucente di un crepuscolo arancione.
La bella Nilemia, temendo il peggio, non si era recata ad assistere a quello straordinario evento, così Meralio volteggiò sopra i tetti rossi e gialli di Norindea, fino a giungere alla casa del Borgomastro, dove la fanciulla stava curando il giardino. Lei alzò lo sguardo, estasiata dall’armonia di quel volo impensabile, lo salutò con la mano, restò ad osservare le sinuose traiettorie simili a quelle degli uccelli, poi distolse lo sguardo e tornò ad occuparsi dei fiori.
Il giorno seguente la città si svegliò quasi incredula, per quell’evento meraviglioso e quasi inconcepibile a cui aveva assistito, e Meralio era pronto a recarsi da Nilemia per donarle quelle ali incantevoli. Lungo la strada, però, venne a sapere che la ragazza aveva detto che, sì, assistere a quel volo l’aveva emozionata, ma anche che gli uomini non hanno le ali e, se gli dei ci hanno creato così, è perché non siamo una razza adatta al volo. E comunque che lei preferiva, piuttosto che gli uccelli, le creature che mettono radici e crescono possenti, come gli alberi.
Meralio trascorse un’intera luna a Norindea, passando di locanda in locanda, dalle taverne più rinomate alle bettole più luride e losche, ad ubriacarsi e a schiamazzare come un qualsiasi ubriacone senz’arte né parte.
Poi, d’improvviso, tornò a Tinozza, nel proprio laboratorio, dove rimase chiuso e solitario, questa volta per sette anni!
Quando uscì furono davvero in pochi a riconoscerlo, poiché si era così inselvatichito da sembrare quasi un orso. Senza neppure lavarsi o radersi si recò a Norindea, presso la casa di Nilemia, che però nel frattempo si era sposata con il giovane Conestabile della città, con cui aveva avuto due bambini.
Allora Meralio, con le lacrime agli occhi, guardò la fiasca di terracotta che stringeva tra le mani e la stappò, trangugiandone in pochi sorsi l’intero contenuto: sotto ai suoi piedi spuntarono radici forti e nodose, la sua pelle si raggrinzì e divenne corteccia, le sue mani si fecero rami, la sua testa si mutò in una chioma frondosa.
Meralio era diventato una maestosa quercia, lì dove si trovava, nel giardino della casa del Borgomastro.
Quella sera Nilemia prese dallo scaffale un vecchio tomo, e lesse ai suoi bambini la storia dei Doni dell’Amore, così come è narrata nel Libro dei Tempi Remoti:
Umar e Lauriel si recarono da Talitea per dirimere una disputa.
Il Primogenito le chiese:
“Se potesse avere qualsiasi cosa, un uomo cosa dovrebbe donare a colei che ama?”
“Io penso che il regalo migliore siano delle ali per volare” ipotizzò Lauriel “così il loro rapporto potrà essere sempre libero e felice.”
“Io invece credo sia meglio offrire delle radici robuste e profonde, affinchè la coppia sia salda e unita fino alla morte” affermò Umar.
Talitea, che li aveva ascoltati in silenzio, rifletté qualche istante con un lieve sorriso sul volto.
“L’ardore degli uomini è strano da comprendere” rispose la Dea della Saggezza “ma chi ama davvero dona capacità e voglia di volare, ma anche motivi e desideri per rimanere”.
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