Danny stava là, sotto, al buio.
La scala, in lieve penombra, saliva polverosa fino al piano terra, dove lui non aveva mai messo piede.
Lui non era mai salito, ma sapeva che su c’era luce. Anzi, molte luci, tutte diverse tra loro.
E aria fresca. E bei colori.
Su, dove stavano mamma e papà, suo fratello, gli amici.
Dove stavano tutti gli altri.
Li vedeva spesso, ma lui non saliva mai. Erano loro a venire giù, da lui, a controllare come andava, se stava bene.
Insomma, che non gli mancasse nulla.
A parte tutto ciò che stava di sopra.
Non è che a Danny fosse vietato salire: era lui che non poteva. Che non ci riusciva.
Avrebbe voluto, sì, a lui sarebbe piaciuto posare i piedi sulle scale, ma proprio non riusciva a farcela.
Era come provare a sconfiggere un drago corazzato con una spada di carta.
Come un neonato che deve scalare una rupe a picco su un oceano in tempesta.
Era più forte di lui restare sotto, al buio, nella solitudine più nera.
Non è che gli altri, quando andavano a trovarlo, scendessero veramente: ci provavano, ma lui non li accettava.
Non per cattiveria, ma perché non potevano davvero andare da lui.
Spesso gli parlavano dal piano superiore, gli chiedevano – lo incalzavano, lo imploravano – di salire.
Ma la luce, l’adorata luce, tutti quei suoni, quelle tinte, quel mistero che non aveva mai visto, lo sconvolgevano a tal punto da terrorizzarlo.
Da inibirlo, bloccarlo fisicamente nell’immobilità.
E allora lui stava lì, seduto, fermo come una statua.
Ad aspettare?
No, non c’era nulla da attendere.
Nessuno poteva aiutarlo a salire quegli scalini, nessuna forza l’avrebbe spinto o convinto a muoversi.
Non esisteva nessuna magia che lo aiutasse a risalire quella lieve, insignificante, inaccessibile pendenza.
Non ancora almeno.
Domani, forse.
Ma lui sapeva - in cuor suo lo sapeva bene - che nessuno lo avrebbe mai davvero aiutato.
Mai.
Mai.
Un pensiero agghiacciante, terribile.
Ma anche sicuro, tranquillizzante, ineluttabile.
Dolce.
Come le tenebre.
A volte era Zenzero a scendere: con il suo passo felpato, il gatto bianco e nero lo raggiungeva e lo capiva.
Anzi, si capivano a vicenda.
Ma era solo una questione di pochi momenti: brevi istanti di intima e palpitante condivisione.
Che comunque non lo portavano mai a raggiungere il piano superiore, dove le altre voci si rincorrevano liete, o tristi, scoraggiate o arrabbiate.
Comunque vigorose, palpitanti di vita, di luce, di intima bellezza.
Dove lui non sarebbe mai stato.
Come lui non sarebbe mai stato.
La donna lo chiamò sorridendogli amorevolmente, e facendogli una carezza sul capo:
“Danny, hai fame? Vuoi mangiare qualcosa o aspettiamo papà?”
Ma Danny, seduto sullo sgabello, reggeva la matita nella mano stanca eppure salda come la pietra, senza ascoltare, senza dare il minimo cenno di aver inteso una sola parola.
Sul foglio degli scarabocchi.
Il corpo irrigidito e irremovibile.
La madre sorrise stancamente e gli tolse il pastello delle dita chiuse come una morsa.
Lo sguardo di Danny era fisso nel vuoto, nel nulla.
Fuori suo fratello giocava nell’erba, ma lui lo contemplava senza vederlo.
La sua mente era là, perfettamente cosciente, nel buio della cantina.
Ma neppure stavolta avrebbe avuto la forza per risalire la scala proibita: salire, sorridere e rispondere.
Chissà forse domani.
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