Arthur era uno scienziato autentico: non credeva in dio, ma aveva fede nella conoscenza e nella capacità degli uomini di trovare – da soli – delle risposte ai grandi quesiti della vita.
Lavorava in un avanzato laboratorio di ricerca, dove cercava rimedi alle malattie considerate ancora incurabili. Per fare questo Arthur praticava con coscienza la sperimentazione animale: era lecito sacrificare oggi un topo, o tre scimmie, per salvare centinaia di bambini domani! L’essere umano era chiaramente la razza dominante del pianeta e, come tale, poteva disporre delle altre creature. Certo, con competenza e buon senso, e solo per un fine alto e giusto. Proprio come un “buon padre di famiglia” soleva ripetere Arthur che, come tutti i leader, in caso di bisogno sapeva scegliere il male minore, per il bene collettivo.
Lo scienziato non metteva in dubbio che gli animali utilizzati nei suoi studi provassero dolore, o amore, odio e altri sentimenti. Vedeva il loro compassionevole istinto materno, e li ammirava per questo. Ma tutto ciò era secondario, poiché il loro sacrificio aveva un fine lecito e persino nobile.
Solo un pazzo poteva pensarla diversamente, pensava lo scienziato, sapendo di avere la ragione e il discernimento al proprio fianco.
Quando arrivarono gli extra-terrestri Arthur gioì, perché questo episodio confutava tutte le assurde teorie religiose, e viceversa supportava i veri scienziati come lui. Il fatto poi che queste creature aliene fossero amichevoli e tentassero – con risultati mediocri, ma incoraggianti – di dialogare con i terrestri, era un ulteriore motivo di orgoglio e soddisfazione: i migliori scienziati del pianeta erano al lavoro per cercare di trovare un linguaggio comune, con cui poter comunicare, e anche Arthur era in questo team di menti elette.
Gli alieni, dal canto loro, erano palesemente gentili con gli umani: regalavano loro cibi nuovi e squisiti, elargivano tessuti comodi e leggeri, fornirono tecnologie che resero le case terrestri più confortevoli e le loro vite migliori.
Finché alcuni umani iniziarono a scomparire.
Non molti, ma neppure pochissimi.
La verità fu scoperta negli stessi giorni in cui venne approntato il linguaggio con cui comunicare con gli extra-terrestri. La loro risposta fu molto chiara, semplice e cortese:
“Oh sì, li usiamo come cavie nei nostri laboratori di ricerca. Siamo chiaramente più evoluti di voi: nessuna altra specie ha i nostri poteri e le nostre conoscenze, quindi possiamo disporre delle altre creature dell’universo, voi compresi, con competenza e buon senso. Dovete capirci: è il male minore, per il bene della nostra intera razza. Siamo consapevoli che proviate dolore, amore e altri sentimenti, ma solo un pazzo potrebbe pensarla diversamente…”
Epilogo
Arthur fu legato all’interno di un’astronave e utilizzato per testare un nuovo tipo di viaggio sub-luce: provava un caldo insopportabile tutto il tempo, aveva i polsi e le caviglie doloranti, e profonde piaghe alla schiena. Il chiarore accecante gli danneggiò la vista, che calò fino a scomparire del tutto, ma in compenso poteva odorare i propri escrementi, sparsi tutti attorno al suo sedile. Non poteva neppure urlare, perché gli recisero le corde vocali.
Quando iniziarono ad asportargli pezzi di cervello, Arthur era ancora vivo: morì dopo molti mesi di sofferenze e non seppe mai se, dai suoi test, gli alieni ottennero qualcosa di utile.
“Nessuno scopo è, secondo me, così alto da giustificare dei metodi indegni per il suo conseguimento” (Albert Einstein)
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