Nessuno sapeva il suo vero nome, ma a Tollbury lo conoscevano tutti come “Brontolo”, perché passava le giornate a borbottare.
Era un senzatetto dall’aspetto anziano, ma forse quella vita miserevole gli aveva segnato il volto ben più del tempo trascorso. Vagava per il paese senza chiedere l’elemosina, tanto poi trovava sempre qualcuno disposto a pagargli una birra o un pasto: raccontava storielle assurde, senza capo né coda. Se gli chiedevi cosa voleva mangiare, lui poteva rispondere “sole giallo… foglie verdi… come un uovo… Beirut… la pelle di una vecchia”. Ingegnandosi in po’ si poteva intuire che volesse un pompelmo, ma insomma, era mezzo sciroccato.
Anche più di mezzo, pensò Cyrus Spezzalini mentre guardava il cadavere di Brontolo, sui ciottoli del fiume.
“Annegamento” aveva appena dichiarato il medico, al termine di una visita durata poco più di quindici secondi.
Se nel fiume ci fosse finito il figlio del senatore, scommetto che l’esame sarebbe stato meno approssimativo, notò Spezzalini senza però obiettare nulla a voce, limitandosi a sputare nella corrente alcuni brandelli di tabacco.
“E quei segni scuri sul collo?” domandò tra un tiro e l’altro di cigarillo, dopo averlo acceso con un fiammifero (Spezzalini non usava quasi mai gli accendini e detestava i cerini; non c’era un motivo reale: li disprezzava e basta).
Il dottore, che era accucciato vicino al corpo, si voltò prima verso il detective, poi tornò ad osservare il cadavere:
“Gli indigenti hanno spesso queste macchie sull’epidermide, per la mancanza di igiene e pasti decenti. Comunque, se sarò autorizzato dalla centrale di polizia” e accentuò queste parole “compirò un esame autoptico completo. Eventualmente ci vorrà del tempo. E avrà un costo per la comunità. Aspetto notizie…” concluse sarcastico e si alzò, allontanandosi con passo insicuro tra i sassi del fiume. L’investigatore privato mise una mano in tasca e lo osservò, sperando che le suole di cuoio tradissero il passo incerto del dottore, ma no, non accadde.
Dopo alcune boccate di fumo, il detective alzò lo sguardo verso i curiosi che osservavano dal ponte di pietra vicino al vecchio lavatoio: c’erano ragazzi di tutte le età, anziani, donne, uomini. Un campione eterogeno della popolazione di Tollbury. Erano stati scacciati dall’argine del fiume da alcuni solerti poliziotti, ma avevano trovato un altro luogo da cui assistere alle varie operazioni.
E per guardare il cadavere, ovviamente.
Spezzalini non capiva questa ottusa morbosità, ma sapeva che succedeva sempre così, quando c’era di mezzo un morto. Sputò di nuovo nell’acqua e chiamò un agente:
“Copritelo con un telo” e indicò il corpo fradicio con lo sguardo.
Il poliziotto gli lanciò un’occhiata torva e sembrò sul punto di rispondergli qualcosa, poi però annuì e lo fece.
Cyrus si chiuse il cappotto color sabbia, si sistemò il cappello facendo un lieve cenno deferente a Brontolo, poi risalì verso le case.
“Signor Spezzalini, lo so che non posso pagarvi molto, ma sono certa che Brontolo è stato ucciso”.
Elsbeth era maggiorenne da pochi mesi, ma era già da tre o quattro anni che lavorava come cameriera estiva nell’unico pub decente di Tollbury, “Il Faro” (perché un locale in mezzo alla pianura si chiamasse così, non si era mai capito). Aveva i capelli biondi, come birra chiara appena spillata, e lo sguardo ancora da bambina.
“Te lo ripeto: dovresti rivolgerti alla polizia” bofonchiò Cyrus spostando la tazza vuota. L’uomo era seduto a un tavolo, lei invece era in piedi con la divisa ufficiale del pub (nera, con piccoli inserti bianchi) e gli versò istintivamente del caffè americano (che l’uomo detestava). Lui ritrasse le dita: non avrebbe bevuto quel beverone annacquato, ma almeno il profumo era decente.
“Mi avete detto anche voi che per loro il caso è già praticamente chiuso, come morte accidentale!” obiettò la ragazza.
Spezzalini sospirò, poi la fissò negli occhi:
“Perché ci tieni tanto? Era… era solo un barbone mezzo matto!”
L’uomo si disprezzò per aver detto una frase così bieca, ma non capiva il tormento della ragazzina.
“P-perché è giusto. E…” esitò. Elsbeth si guardò attorno: non c’erano vicino altri clienti, Anna (l’altra cameriera estiva, sua coetanea) era lontana e spazzava per terra, mentre Big Dwarf era dietro al bancone e stava “pulendo” dei boccali (con uno straccio sporco quasi quanto il suo grembiule, che forse secoli prima doveva essere stato bianco, ma che ora aveva delle incrostazioni abbastanza simili a quelle di una canna fumaria). Proseguì:
“Girava voce che fosse mio padre. I-io… non so se è vero, ma… mia madre è morta che io ero ancora piccola e… beh, ho da parte qualche soldo e voglio spenderli così” ribadì cambiando tono: prima era fragile e insicuro, adesso più determinato “siete l’unico investigatore privato che rifiuta un lavoro?” e concluse l’ultima domanda accorgendosi di aver alzato troppo la voce, riabbassandola “oppure la paga non è abbastanza?”
Il denaro è poco, ma non è questo il punto, ponderò Spezzalini, portando la tazza alla bocca. Assaggiò un sorso, percepì la solita brodaglia insapore e la riposò sul tavolo.
“Cosa ti fa credere che non sia davvero scivolato nel fiume?”
“Aveva visto qualcosa. Qualcosa che sarebbe dovuto restare segreto. Qui, nel pub, due sere fa” lanciò ancora un’occhiata al locale.
“Te l’ha detto lui?”
“Lo sapete anche voi, lui non parlava bene. Almeno, non con parole normali… Però sapeva farsi intendere. Gli ho domandato cos’avesse visto, ma era spaventato. Io…” diede un altro sguardo furtivo a Big Dwarf, che la scrutava con un’espressione truce. Elsbeth versò ancora del caffè e la tazza ormai stava quasi per tracimare. Il detective osservò la scura barba incolta dell’uomo e il suo bicipite enorme. Un anno prima erano girate strane voci sul “Faro”: pareva che fosse al centro di un giro di oro rubato, ma poi le chiacchiere erano scomparse.
Intanto Elsbeth continuò il racconto, parlando con un sussurro:
“Gli ho chiesto di dirmi almeno chi avesse visto, ma mi ha fatto capire che non poteva dirmelo. Era letteralmente terrorizzato, secondo me era stato minacciato…”
Cyrus non chiese nulla: gli avevano insegnato che, quando si vuole far parlare qualcuno, il modo migliore era non fare nessuna domanda.
Infatti la ragazza continuò:
“Gli avevo detto che, se non poteva dirmelo, poteva almeno scrivermelo. E secondo me lo stava per fare. Aveva qualche biglietto in tasca quando è morto?”
Spezzalini non ne aveva idea.
Pagò il tremendo caffè senza berlo, lasciò un mancia e uscì, guardato torvo dal nerboruto padrone della taverna.
Alla centrale di polizia ci volle un po’ di tempo tra richieste, incartamenti da compilare, timbri che non si trovavano e persone da aspettare, ma alla fine Spezzalini ottenne quello che voleva sapere: sì, nella tasca dei pantaloni di Brontolo c’erano parecchi foglietti di carta, scritti a mano. Alcuni a contatto con l’acqua si erano ridotti a brandelli, altri si erano irrimediabilmente macchiati. Ne restavano cinque, più o meno comprensibili (almeno, per quanto la parola “comprensibile” valesse per una mente disturbata e delirante come quella di Brontolo).
I foglietti erano stati catalogati in una busta di plastica, di quelle con i buchi sul bordo, per i quaderni ad anelli.
Due erano su piccoli fogli a quadretti:
- “i topi non avevano” (la parola finale era quasi illeggibile, poteva essere “nipoti”?)
- “era timida ad” (“iniziare”? “imitare”?).
Il terzo era un biglietto sporco di inchiostro blu, forse di un altro biglietto che era andato perduto. Anche questo testo era in parte cancellato:
- (“erano”?) “i mesi di seminare”.
Le ultime due frasi erano su altrettanti tovaglioli di carta de “Il Faro”, di quelli che ci sono su tutti i tavolini negli appositi contenitori. Qui le parole erano conservate per intero. Un foglietto diceva:
- “eri un nano, non annuire”
mentre l’altra era composta da una sola parola:
- “oro”.
Spezzalini sospirò.
Begli indizi del cavolo, pensò. D’altronde, cosa si aspettava? Che ci fosse scritto “Big Dwarf” in bella scrittura, magari con allegata una bella prova schiacciante?
Certo, “oro” poteva essere un rimando a quel giro sospetto di cui si era chiacchierato l’estate precedente. E quel “nano” era proprio la traduzione dell’inglese “dwarf”: poteva essere un altro indizio. Ma i topi? La semina? Chi era timida a iniziare (o imitare)?
Potevano essere una frase da comporre, come in un puzzle? No, sembrava di no.
Cyrus si grattò il mento e scosse il capo. Comunque chiese una fotocopia di quei foglietti, pronto a compilare nuove scartoffie: non sarebbe servito a nulla, ma almeno avrebbe potuto convincere Elsbeth a non sprecare i suoi risparmi in un’indagine inutile.
E lui si sarebbe ritrovato di nuovo senza clienti.
Era tardo pomeriggio e Anna, l’altra cameriera del pub, gli disse che Elsbeth sarebbe arrivata da un momento all’altro, così Cyrus decise di aspettarla. Nell’attesa bevve una pinta di Guinness e ne approfittò per guardarsi attorno: Big Dwarf non si vide mai, ma si sentivano dei rumori di padelle dalla cucina, insieme a un profumo niente male di cipolle soffritte. Anna era l’opposto di Elsbeth: capelli neri e corti, nervosa, masticava una cicca con la bocca mezza aperta.
Cyrus sospirò ed andò in bagno (la birra su di lui aveva questo effetto: espulsione immediata, con tempo di attesa che si riduceva allo zero quasi assoluto).
Si lavò anche la faccia davanti allo specchio. Guardò il proprio viso riflesso e sospirò: non aveva questioni da porsi, come nei film scadenti quando il protagonista sta per tirare un pippone agli spettatori tramite un dialogo con la propria immagine. Ma Cyrus era solo stanco e non aveva voglia di deludere una ragazzina ingenua.
Sul boiler bianco alle sue spalle, qualche burlone aveva disegnato delle corna che, ad un uomo di media altezza come Cyrus, incorniciavano perfettamente il volto specchiato. Il tutto era decorato dalla didascalia “CERVO DI MONTAGNA” che, con grande sagacia, era stata scritta al contrario: in questo modo chi si specchiava poteva leggerla alla perfezione. Cyrus abbozzò la parodia di un sorriso: nelle sue precedenti visite al bagno del Faro non aveva mai girato le lettere, quindi il senso gli era sempre risultato poco comprensibile, un po’ come le frasi di Brontolo.
Come le frasi di Brontolo.
L’acqua scorreva mentre Cyrus Spezzalini rifletteva.
Riflettere.
Come lo specchio.
Ossia al contrario.
Era timida ad imitare.
Al contrario diventava… la stessa, identica frase!
I topi non avevano nipoti, eri un nano non annuire, oro, eran i mesi di seminare… erano tutte espressioni palindrome: lette da destra a sinistra risultavano tale e quali.
Bello, ma… quindi?
La scoperta era linguisticamente interessante, ma dal punto di vista delle indagini non…
Che sciocco: la soluzione era lampante!
Improvvisamente il detective Spezzalini capì tutto, come se un raggio di sole avesse illuminato la sua mente, che poco prima brancolava ancora nel buio della notte.
Brontolo aveva fatto esattamente quanto richiesto da Elsbeth: aveva scritto la persona a cui aveva visto fare qualcosa di losco. Ma lo aveva fatto a modo suo, indiretto.
Cyrus chiuse il rubinetto dell’acqua, si asciugò le mani e uscì da bagno, per fare quattro chiacchiere con Anna, l’altra cameriera del pub.
Che, come Elsbeth, lavorava al Faro ogni estate.
Anna.
Che si legge uguale anche partendo da destra.
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